maggio 11, 2010

1. La conoscenza

Secondo l' idea costruttivista la conoscenza è individuale. L’apprendimento è un processo di creazione ed elaborazione congiunta di significati, in cui il singolo, in quanto facente parte di un gruppo, riceve e, al tempo stesso, dà sostegno e motivazione. L’apprendimento e l’intelligenza non sono, quindi, esclusiva del singolo, ma emergono nell’interazione/collaborazione del gruppo. La conoscenza individuale viene, dunque, messa in circolo; c’è una fase di socializzazione, dove si costruiscono le basi per poter ragionare insieme. C’è un momento in cui questa conoscenza viene espressa attraverso un linguaggio che formalizza, esternalizza questi concetti, e che la porta fuori dall’individuo, e la rende condivisibile, componibile con altre conoscenze ed arricchibile, manipolabile.
Da questi presupposti teorici, soprattutto in ambito scolastico, sono stati sviluppati vari modelli di comunità di apprendimento. Il Computer Supported Collaborative Learning (CSCL) è l’ambito di ricerca che mira a trovare soluzioni per condividere la conoscenza in rete. L’obiettivo principale non è solo supplire alla distanza, spaziale e temporale e di creare il senso di comunità, ma di potenziare, gli aspetti umani di socializzazione propri della vita reale.

1.1 Definizione di conoscenza

La conoscenza può essere definita e interpretata in due modi:
  1. Da una parte è vista come “oggetti”, qualcosa che esiste nel mondo, e che l’individuo può incontrare e conoscere in modo oggettivo, come avviene nel senso comune del termine. Esiste una realtà esterna, e la conoscenza è l’acquisizione di tanti oggetti che vivono nel mondo per accumulazione dei loro contenuti.
  2. Dall'altra la conoscenza è vista come un “processo”: questo implica l’esistenza di attori, e l’esistenza di interazione tra essi. La conoscenza viene quindi vista come un fenomeno sociale (un processo in un contesto sociale definito dalle interazioni tra gli attori).

Dati questi due filoni, che sono due punti di vista completamente opposti, scegliere uno o l’altro ha implicazioni molto diverse. Nel primo caso tutto è legato all’accumulazione di qualcosa che esiste esternamente, qualcosa di oggettivo; mentre nel secondo la conoscenza e l’acquisizione di conoscenza non è più legata all’acquisizione e all’accumulo, ma alla costruzione collaborativa dei contenuti di conoscenza, ed è un processo soggettivo e dinamico che viene costruito.

Legato in maniera indiretta alla seconda definizione c’è il concetto di verità: ovvero qualcosa di dinamico legato ai concetti sociali che generano conoscenza. Nella prima si cerca la verità in quello che già esiste, nella seconda invece si conviene che è inutile cercarla, perché bisogna costruirla insieme.

Il punto di vista preso sulla carta come ragionevole è il secondo, non tanto da un punto di vista filosofico, quanto da queallo pragmatico; questo perché se guardiamo come la conoscenza viene generata nelle organizzazioni, la seconda definizione è più in grado di spiegare i fenomeni.

Il vero problema è che mentre dal punto di vista concettuale la seconda divisione sembra più ragionevole e vicina alla vita quotidiana, è un punto di vista molto complesso, perché non da punti fermi: essendo tutto legato al fenomeno sociale, è tutto in evoluzione. La prima visione è molto più semplice nella sua concezione; se la prendiamo per buona, l’acquisizione di conoscenza è un fenomeno molto più lineare, che parte da qualcosa di esistente. Solitamente si prende la seconda posizione, ma poi nella pratica a volte si ricade nella prima, senza essere coerenti fino in fondo. Sono due posizioni inconciliabili, anche dal punto di vista filosofico.

La definizione di verità che nasce dal secondo filone è quella di credenza giustificabile; questa definizione è data dalla composizione di due aspetti: da una parte una credenza non è niente di assoluto, ma possono esserci credenze opposte (discorso soggettivo), dall’altro è giustificabile (aspetto sociale), il fatto che quello che credo sia sostenibile.

In questo discorso rientrano molte cose che sono comunemente considerate vere; è vero che tutto può evolvere, ma in questa visione ci sono molte scoperte di contenuti che sono comunemente e socialmente considerati giustificabili, quindi veri.

Il secondo filone richiede da parte degli attori un atteggiamento attivo, costruttivo, nel sapersi mettere in discussione, nel sapersi evolvere; nel primo c'è un atteggiamento più passivo, perché non è necessario costruire ma solo cercare.

È importante il ruolo del contesto: esso influenza la giustificabilità di alcune affermazioni.

Da questa serie di ragionamenti che stiamo facendo, la conoscenza è costruita socialmente, ma posseduta dall’individuo, come suo apprendimento di quello che è stato socialmente costruito. L’individuo è visto come parte del secondo processo, è all’interno di una struttura sociale.

Le organizzazioni costruiscono e gestiscono conoscenza tramite gli individui; essi costruiscono il patrimonio conoscitivo dell’azienda in modo collaborativo. Il fatto di vedere che l’organizzazione conosca attraverso individui vuol dire applicare il principio della credenza giustificabile (ci possono essere diverse ipotesi e diversi punti di vista che possono convivere); la verità unica non esiste neanche a livello organizzativo, è sempre tutto legato ai processi cognitivi che hanno generato quella conoscenza, che possono essere globali (se coinvolgono tutti) oppure locali.

1.2 Conoscenza vs informazione

Accedendo al WEB (inteso come tutta l'informazione che c'è in rete), si possono reperire informazioni e documenti; quello che si recupera da internet è informazione, non conoscenza, anche se spesso le due cose vengono confuse.

Quello che si fa è acquisire informazioni che diventano conoscenza nel momento in cui entrano in un processo sociale di discussione tra chi le genera o tra chi le usa; l’informazione in sé è un input, la conoscenza è un processo generato da questo input, un processo che elabora le credenze.

Nel WEB si accede a informazioni che non dicono nulla, a meno che non si riesca a prenderle e trasformarle in un processo, e confrontarle con altre credenze giustificabili per costituire una nuova conoscenza. L’informazione gioca un ruolo importantissimo nel KM ma come veicolo, come supporto.

La differenza tra conoscenza e informazione ci permette di affermare che gestire la conoscenza è diverso da gestire l’informazione. Molti sistemi sono venduti come gestori della conoscenza, quando in realtà gestiscono informazioni. L’informazione è decontestualizzata, conoscenza significa contestualizzare questa informazione in un’insieme di conoscenze che esistono in precedenza.

2. Il Knowledge Management. Concetti generali

"[...] quel filone di ricerca teorica e applicativa
che sviluppa il ciclo della conoscenza
ll’interno di una comunità di pratica o d’apprendimento
tramite strumenti dell’information technology"
(Wikipedia)

"Il knowledge managment è la sistematica, esplicita e deliberata organizzazione,
applicazione e rinnovamento della conoscenza interna di un'azienda
al fine di massimizzarne l'efficacia della base conoscitiva e i relativi benefici."
Karl Wiig in LIEBOWITZ (1999)


L'esigenza più recente è di riconoscere quello che avviene nelle aziende, capirlo e supportarlo con la tecnologia. Questo approccio si sviluppa a partire dagli anni ‘90 quando alcune grosse aziende cominciano a riflettere sui problemi legati alle conoscenze e alle competenze aziendali, in modo da gestirle e usarle al meglio attraverso sistemi. Gli strumenti derivati e proposti per questi sistemi nascono da consulenti, non in accademia, con lo scopo principale di tradurre l'esigenza in un prodotto. Il fatto che il KM sia nato negli anni '90 non è casuale: era quello un periodo in cui molta attenzione si era posta sulla gestione nei processi organizzativi. Essi hanno l'obiettivo di soddisfare un cliente. Il problema del KM emerge in un periodo in cui molta attenzione si era posta nelle organizzazioni e anche nello sviluppo tecnologico sulla gestione dei processi. Mentre prima si cercava di ottimizzare verticalmente e non si riusciva farlo attraverso il passaggio del flusso comunicativo tra un dipartimento e l'altro, ora il processo di gestione si focalizza su come mettere a servizio di tutta l’azienda le conoscenze professionali specifiche di ogni membro partendo dalla considerazione dei requisiti (materie prime), attraverso tutte le strutture (dipartimenti), per arrivare alla fine a soddisfare il cliente. Da questa consapevolezza nasce l’esigenza di rendere più efficace ed efficiente la relazione col cliente attraverso processi di CRM (Costumer Relationship Management) : viene dato un nuovo valore alle relazioni, ad esempio attraverso la fidelizzazione.
Ciò ha permesso la nascita e lo sviluppo di una serie di fenomeni:

1. ampliamento del mercato;

2. diminuzione dei monopoli;

3. prodotti più competitivi;

4. riduzione del prezzo.

Alcuni fatti hanno poi determinato le esigenze volte a ragionare in termini di gestione della conoscenza:

- globalizzazione

- competitività

- innovazione (del mercato e della tecnologia)

In questa evoluzione cambia anche il mercato del lavoro: a partire dagli anni '80, maggiore attenzione viene rivolta alla gestione dei processi in quanto si viveva un periodo storico in cui da una parte stava cambiando la struttura economica, i guadagni erano ridotti, i margini di profitto delle aziende diminuivano, c’era una selezione di personale e vi era la corsa all'accaparramento dei clienti. In una parola, si tendeva alla razionalizzazione. Dall'altra competitività e innovazione facevano sì che le aziende cercassero di rubarsi le persone di valore, con grossa esperienza.

Si pone quindi il problema di come le aziende gestiscono le proprie competenze in termini di persone e capacità, come cioè ottenere ed amministrare efficacia, produttività e flessibilità.

Si comincia a parlare di patrimonio della conoscenza: essa non è più vista come un costo, ma come qualcosa che può contribuire al valore dell’azienda. E' una risorsa che accompagna il processo produttivo in tutti i suoi passaggi essendo un elemento produttivo al pari degli altri.

Come sosteneva Heidegger (1889-1976) a fondamento della significatività del mondo sta l’utilizzabilità delle cose, il loro essere innanzitutto “a nostra disposizione”, il loro servire per un fine. Nel nostro caso la conoscenza è “significativa” quando diventa competenza e, per poterla generare è opportuno passare attraverso l'esperienza.

La tecnologia sostiene la globalizzazione che richiede innovazione che richiede conoscenza. Da ciò di evince che, per sopravvivere, bisogna gestire la conoscenza. Il valore dell'azienda è dato dalla qualità della conoscenza che al suo interno si sviluppa. (DEF)

Dal punto di vista organizzativo si passa dall’attenzione degli ultimi anni ’70-‘80 (in cui si assisteva alla reingegnerizzazione delle aziende) al cercare di capire come la conoscenza viene creata, quali processi la generano. C’è il rischio che per ottimizzare i processi ci si lasci sfuggire la conoscenza che si produce in questi processi.

Negli anni l’obiettivo del Knowledge Management è passato dal rendere facile la reperibilità delle informazioni al fare in modo che il valore aggiunto delle informazioni raggiunga gli obiettivi di business dell'azienda.

2.2 Quando nasce il Knowledge Management? Cenni storici

La gestione della conoscenza esiste da sempre, da quando, cioè, gli individui hanno iniziato a costituirsi in gruppi, in organizzazioni. Nonostante la creazione di conoscenza sia un’attività umana, e come tale imperfetta, le persone hanno doti uniche che la tecnologia fa fatica a emulare e superare. Essa può però aiutarci a gestire la conoscenza e a condividerla con altri attraverso sistemi di supporto che permettano una maggiore interazione tra gli individui.

Esiste poca letteratura relativa alla gestione della conoscenza fondamentalmente perché i primi sistemi sono nati negli ultimi vent'anni ma anche a causa di testi che presentano i concetti da un punto di vista soggettivo, ponendo eccessiva enfasi unicamente sui casi di successo.

Le tappe dello sviluppo del KM possono essere così riassunte:

  1. 1986. Nasce il concetto di Knowledge Management. Karl Wiig, presidente del Knowledg Research Institute durante una conferenza allestita dall’Organizzazione Internazionale dei Lavoratori delle Nazioni Unite, enunciò i principi del knowledge management, termine da lui coniato.
  2. 1991. L’ Harvard business review (prima rivista di management del mondo) pubblica il primo articolo (Nonaka e Takeuchi) dedicato alla nuova disciplina.
  3. 1994. Prima conferenza sul KM gestita dalle grandi aziende di consulenza americane e grandi aziende produttrici (IBM, XEROX...) dal nome "Knowledge management network". Da questo momento in poi queste aziende iniziano ad offrire servizi di KM ai loro clienti.

Tali processi hanno permesso di tenersi in contatto con la clientela, di inserire le loro informazioni nei database e fornire loro modalità per interagire in modo che tali interazioni potessero essere registrate e analizzate.
Ovviamente bisogna investire prima in strategia, organizzazione e comunicazione, solo dopo nella tecnologia.
La tecnologia non esiste senza una struttura organizzativa e l'organizzazione non può prescindere dalla tecnologia.

Pertanto la scelta del software, ad esempio per il CRM, non ha alcun effetto sulla probabilità di successo. Ciò non implica che i software siano tutti uguali, ma significa solo che non esiste un software che garantisca il successo se i presupposti sono sbagliati.

2.3 La Business Process Reengineering (BPR)

La reingegnerizzazione dei processi negli anni '80 si è occupata di riprogettare i processi di business talvolta eccedendo nella razionalizzazione e finendo per fare ristrutturazioni pensando più ai metodi che alla qualità (sono state eliminate ridondanze e inefficienze, accorgendosi poi che in realtà erano produttive, causando disastri).
Appurata la necessità di un rinnovamento, l’attenzione comincia a volgere al TTM: viene rivoluzionata la concezione del prodotto e del processo produttivo che deve essere quanto più possibile "anticipato" (le fasi di configurazione e strutturazione delle linee produttive arrivano ad essere velocissime per evitare la concorrenza). La parola chiave, in questo senso, è innovazione: tale processo diventa molto più rapido, fondamentale per la sopravvivenza, insieme lavoro fantasioso e di miglioramento del prodotto, non solo la creazione di prodotti nuovi per nuovi bisogni. L'innovazione è vista come un processo continuo (realizzo la versione 1 pensando già alla versione 2 di un prodotto) che deve accompagnare la vita dell'azienda ogni giorno, fino anche a delle esasperazioni per cui si creano anche bisogni che sembrerebbero superflui, mode e sprechi.

Uno degli obiettivi è trovare idealmente un rapporto corretto tra qualità e tempo (per tempo si intende il TTM); può avere più successo, in linea teorica, chi riesce a ottimizzare questo rapporto, dando un prodotto migliore nei tempi richiesti (nella moda ad esempio la qualità del prodotto ha un valore minimo).

In tutto questo gioco, nella lotta qualità-prezzo per arrivare in tempo sul mercato, è implicata la conoscenza. Le aziende oltre ad ottimizzare i processi si sono rese conto che bisogna gestire il processo di innovazione in modo migliore (è necessario capitalizzare le esperienze per ridurre al minimo gli errori di progettazione, o di pianificazione, perché diventano catastrofici). In questi termini la conoscenza diventa un fattore fondamentale: si parla di conoscenza come memoria dell'azienda delle scelte fatte, gestionali e operative. Perchè questo accada, c’è bisogno di formazione del personale.

3 . Un modello di conoscenza. Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi

3.1 Conoscenza tacita ed esplicita

Intorno alla metà degli anni ‘90 due studiosi giapponesi, Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi hanno analizzato una serie di aziende, e hanno messo a punto un modello in cui si distingue conoscenza tacita ed esplicita. Questa distinzione è vecchia, deriva dalla filosofia del passato, solo viene riproposta in maniera comprensibile per le aziende.

La conoscenza tacita è esperienzale (corporea, personale), simultanea ("qui e adesso") e analogica (pratica), mentre la conoscenza esplicita è razionale (mentale), sequenziale ("là e allora") e digitale (teorica). Il passaggio di conoscenza da un tipo all’altro prende il nome di conversione. Ogni conversione crea nuova conoscenza.

L’interazione tra modelli mentali diversi (conoscenza tacita) è detta socializzazione e ha per risultato l’esteriorizzazione di conoscenza esplicita (prodotti, servizi o soluzioni innovative) da cui trarre nuova esperienza, cioè nuova conoscenza tacita. A questo punto il ciclo ricomincia e il risultato di queste trasformazioni è l’innovazione contenuta nei nuovi prodotti e la spinta alla creazione di ulteriore conoscenza.

Si tratta dunque di due modelli di conoscenza distinti ma indispensabili l’uno per l’altro.

La conoscenza esplicita:

1. Può essere descritta con un linguaggio, quindi è legata ad una rappresentazione

2. Può essere definita come digitale e discreta: il discreto non riesce a rappresentare il continuo, possiamo avere approssimazioni, ma non può esplicitare (concetto di approssimazione)

3. È legata alla razionalità

4. Ha molto a che fare con l’informazione


La conoscenza tacita:

1. Rappresenta tutto quello che non può essere descritto (ad esempio cercare di spiegare come si usa una bicicletta); non è una questione di quantità o risorse

2. Può essere definita come analogica e continua

3. È legata all’esperienza

4. È legata al concetto puro di conoscenza

In mezzo c’è quello che è ancora implicito, o non ancora esplicitato: ciò che potrebbe essere descritto, ma nessuno l’ha ancora fatto.
La conoscenza esplicita, nel momento in cui esce dalla testa di chi la possiede, diventa informazione; ridiventa conoscenza nel momento in cui la si reinserisce nel proprio contesto interpretativo.

3.1 Conoscenza tacita ed esplicita

Intorno alla metà degli anni ‘90 due studiosi giapponesi, Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi hanno analizzato una serie di aziende, e hanno messo a punto un modello in cui si distingue conoscenza tacita ed esplicita. Questa distinzione è vecchia, deriva dalla filosofia del passato, solo viene riproposta in maniera comprensibile per le aziende.

La conoscenza tacita è esperienzale (corporea, personale), simultanea ("qui e adesso") e analogica (pratica), mentre la conoscenza esplicita è razionale (mentale), sequenziale ("là e allora") e digitale (teorica). Il passaggio di conoscenza da un tipo all’altro prende il nome di conversione. Ogni conversione crea nuova conoscenza.

L’interazione tra modelli mentali diversi (conoscenza tacita) è detta socializzazione e ha per risultato l’esteriorizzazione di conoscenza esplicita (prodotti, servizi o soluzioni innovative) da cui trarre nuova esperienza, cioè nuova conoscenza tacita. A questo punto il ciclo ricomincia e il risultato di queste trasformazioni è l’innovazione contenuta nei nuovi prodotti e la spinta alla creazione di ulteriore conoscenza.

Si tratta dunque di due modelli di conoscenza distinti ma indispensabili l’uno per l’altro.

La conoscenza esplicita:

1. Può essere descritta con un linguaggio, quindi è legata ad una rappresentazione

2. Può essere definita come digitale e discreta: il discreto non riesce a rappresentare il continuo, possiamo avere approssimazioni, ma non può esplicitare (concetto di approssimazione)

3. È legata alla razionalità

4. Ha molto a che fare con l’informazione


La conoscenza tacita:

1. Rappresenta tutto quello che non può essere descritto (ad esempio cercare di spiegare come si usa una bicicletta); non è una questione di quantità o risorse

2. Può essere definita come analogica e continua

3. È legata all’esperienza

4. È legata al concetto puro di conoscenza

In mezzo c’è quello che è ancora implicito, o non ancora esplicitato: ciò che potrebbe essere descritto, ma nessuno l’ha ancora fatto.
La conoscenza esplicita, nel momento in cui esce dalla testa di chi la possiede, diventa informazione; ridiventa conoscenza nel momento in cui la si reinserisce nel proprio contesto interpretativo.

3.2 Il modello SECI e sua formalizzazione: la creazione di conoscenza organizzativa

Come anticipato prima, la conoscenza esplicita, nel momento in cui esce dalla testa di chi la possiede, diventa informazione; ridiventa conoscenza nel momento in cui la si reinserisce nel proprio contesto interpretativo.

Bisogna usare la gestione dell’informazione perché l’informazione è veicolo di conoscenza; ma bisogna cercare di colmare il gap che c'è tra essere conoscenza e essere solo veicolo di conoscenza. Il problema oggi non è trovare informazione, ma trasformarla con appositi strumenti in conoscenza, perchè di informazioni ce ne sono innumerevoli.

A partire da questi concetti, Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi hanno cercato, grazie a esperienze dirette nelle aziende, di dare una struttura a questo processo, per aiutare le aziende dal punto di vista organizzativo a favorire i passaggi di questo processo (fare in modo che la conoscenza sia generata in modo ricco nelle organizzazioni). Questo serve anche come punto di riferimento per capire in quali fasi di questo processo la tecnologia può aiutare; la scomposizione in diverse fasi può aiutare a collocare in una visione più limitata.

Questo modello (SECI, chiamato anche modello a spirale), realizzato da Nonaka e Takeuchi, è formato da quattro fasi, caratterizzate dal tipo di trasformazione e di elaborazione a seconda dei tipi di conoscenza (T = tacita, E = esplicita), nell’ambito di T ed E singolarmente e dei passaggi da T a E e da E a T.

o Socializzazione

o Esternalizzazione

o Combinazione

o Internalizzazione

La generazione di conoscenza è come un processo a spirale che continua a passare per queste quattro fasi, ed è possibile effettuare molti di questi passaggi.

Queste trasformazioni vengono chiamate conversion; ogni quadrato è una conversion, (da T a T ad esempio, o da T a E).

Se è vero che ciascuno di questi quadranti caratterizza una trasformazione, la prima cosa che ci si può chiedere è cosa succede nella conversione tra T ed E: si formalizza qualcosa, e si perde anche qualcos’altro (come nella conversione tra analogico e digitale). La seconda domanda può essere se questo modello SECI, che dà un ordine di lettura, è proprio necessario; oppure, dato che la ciclicità implica un ordine, c’è sempre una fase attiva per volta? La risposta a queste domande non è esplicitata nel testo di Nonaka e Takeuchi.

Le quattro fasi possono essere così sintetizzate:

§ Socializzazione: ha lo scopo di trasferire conoscenza tacita all’interno di relazioni sociali

a. converte o trasforma conoscenza T in conoscenza T (siamo nel dominio della conoscenza T)

b. costruisce un orizzonte comune, uno sfondo rispetto al quale posso iniziare a dialogare e costruire qualcosa con gli altri; si creano dei presupposti di conoscenza reciproca, condividendo esperienze

c. ci sono individui che socializzando mettono in comune, si trasmettono conoscenza T

d. è una fase sociale (e non individuale); si applica a persone che inizialmente non si conoscono; nel secondo giro poi ci sarà già un orizzonte comune.

e. gli strumenti che si possono usare per favorire questa comunicazione sono:

§ Il dialogo

§ La narrazione (il raccontare esperienze): attualmente inizia ad essere presa come elemento importante nell'interazione uomo-macchina, perché lega elementi cognitivi con un filo logico partecipando alla costruzione di un orizzonte comune. Si parla molto di narrative interfaces, che cercano di proporre contenuti (WEB) che raccontino delle storie; la narrazione rende esplicito il punto di vista da cui racconto una storia.

§ Le tecnologie aiutano soprattutto nei casi in cui le persone non siano collocate nello stesso luogo. Quello che si perde è il linguaggio non verbale, l’espressività: la tecnologia favorisce la comunicazione, ma la rende più povera

§ Le occasioni di incontro, meeting; un’azienda deve realizzare spazi e momenti che favoriscano la socializzazione. Ci sono interessanti tecnologie legate ai tavoli interattivi, che consentono di scambiare esperienze con la gestualità.

Questa fase è fondamentale per poter poi procedere con le altre fasi.

§ Esternalizzazione: l’individuo viene estratto dal gruppo sociale in cui vive ed esternalizza la sua conoscenza, decidendo cosa esternalizzare e come. Nella prosecuzione del processo l’efficacia dell’esternalizzazione può essere più alta o più basso, ma durante il processo non vi sono criteri di valutazione.

o Trasforma la conoscenza T in conoscenza E

o È una fase prevalentemente individuale, perché la conoscenza T è posseduta dall’individuo, ed è l’individuo che può esternalizzarla

o Il linguaggio (es. naturale, grafico, tecnico formale e logico (il linguaggio informatico: progettazione, programmazione), multimediale, etc.)

§ Gioca un ruolo estremamente importante, perché consente di avere la rappresentazione, che possiamo pensare essere l’informazione che viene oggettivata

§ Comprende tutti i possibili linguaggi che si possono usare per esternalizzare la propria conoscenza T

§ I linguaggi possono essere memorizzati così come la rappresentazione può essere memorizzata attraverso un supporto

§ Un linguaggio può essere ambiguo, troppo sottospecificato per essere compreso (ad esempio grafi in cui non vi è la spiegazione del significato degli archi)

Ci sono forme linguistiche che possono essere utili per supportare l’esternalizzazione:

I. metafore: sono l’uso di un linguaggio (termini, concetti, relazioni) di un dominio per dare l’idea di un oggetto di un altro dominio (potere evocativo). Ad esempio, per esternalizzare il concetto di organizzazione, si può dire che sia una macchina o un organismo; quindi se parliamo di una macchina possiamo dare una visione meccanicistica, fatta di componenti che si sincronizzano e lavorano insieme, mentre se parlo di un organismo è qualcosa di armonico, meno distinto in componenti. La metafora serve per dare ordine alla mia descrizione: essa può essere usata anche nella socializzazione.

II. analogie: è il momento in cui la metafora viene raffinata, messa alla prova, perché si verifica che quello che era un’intuizione a livello metaforico stia effettivamente in piedi (che ci sia la possibilità di descrivere aspetti veri attraverso la metafora); l’analogia è una metafora che viene validata nelle sue capacità di descrivere in dettaglio un oggetto. L’analogia è una sorta di controllo sul fatto che io abbia usato uno strumento linguistico che rappresenta quello che si vuole.

Quindi si parte da una visione metaforica, si passa attraverso l’analogia, e poi si usa uno di questi linguaggi (magari anche formalizzato) per precisare maggiormente i vari aspetti.

Tutta la ricchezza della linguistica può esser messa in gioco per arrivare a descrizioni, se serve, fino ad arrivare a linguaggi formalizzati e precisi come i linguaggi di programmazione.

Nell’ambito dei linguaggi formali, domande del tipo "qual è il ruolo della formalizzazione?", "è sempre necessaria o utile?", "cosa significa di preciso?" non hanno risposte univocamente definite.

L’esternalizzazione è una fase prevalentemente individuale, perché la conoscenza tacita è nella mente delle persone ed è l’individuo che può operare questa trasformazione. Il contributo di partenza è un contributo individuale: si dà prevalenza al carattere individuale, anche se la caratterizzazione individuale dell’esternalizzazione potrebbe non essere cosi netta.

L’esternalizzazione ha anche, in parte, una connotazione sociale, data dal confronto dei punti di vista individuali, meno ontologica ma più accessoria; si parla di socializzazione intesa come confronto di rappresentazioni. Queste rappresentazioni, che sono frutto dell’individuo, possono essere riferite a una conoscenza individuale che proprio per la definizione di processo sociale fa sì che avvenga il confronto di punti di vista individuali. Da una parte il confronto può aiutare una persona ad elaborare di più, e dall’altra generare un confronto tra punti di vista diversi che devono tendere verso una dialettica di giustificazione. Non è detto che uno vinca sugli altri, ci possono essere diversi punti di vista validi.

Nonaka non dà nessuna risposta in merito al livello di formalizzazione; essa va trattata con molta attenzione, in quanto fornisce informazioni per chi è esperto del dominio, ma può rappresentare una barriera per chi invece non lo è.

Proprio in questo confronto possiamo trovare una prima risposta: un’eccessiva formalizzazione può essere un ostacolo al confronto, alla discussione, all’identificazione di qualcosa che è socialmente giustificabile. A volte una minore formalizzazione può essere un vantaggio, perché favorisce la comunicazione; in un secondo momento si può poi cercare di formalizzare meglio.

Quindi partendo da un gruppo di persone che non si conosce, che non condivide nulla, abbiamo la socializzazione come base, che crea il contesto in cui può avvenire il confronto, e l’esternalizzazione che crea delle rappresentazioni che devono essere discusse e confrontate.

Queste conoscenze esplicite non sono tutte provenienti dallo stesso gruppo, ma sono accessibili a chiunque.

3. Combinazione: può essere vista come una manipolazione di informazioni, una composizione, della conoscenza esplicita. Concetti che possono essere oggetto di combinazione sono:

- l'integrazione

- la standardizzazione

- la correzione (intesa come aumento della qualità)

- la traduzione

- la classificazione

- la clusterizzazione (costruire insiemi con criteri di omogeneità)

- la strutturazione

- l'ordinamento

- etc.

Nel dominio delle discipline dell’informatica che si occupano di gestione della conoscenza, e information retrieval, usiamo le tecniche che l’informatica mette a disposizione; è necessario fare attenzione che queste tecnologie siano monitorate attentamente, perché i concetti in questione sono tutt'altro che semplici. Nessuna tecnica ormai è fatta in modo totalmente automatico, sono sistemi più o meno interattivi, che danno un aiuto e un sostegno, ma la supervisione umana è quasi sempre indispensabile.

La combinazione ha una caratteristica di socialità derivante dal fatto che si prendono diverse fonti o rappresentazioni per combinare, in base agli scopi che si vogliono ottenere. E' vero che si possono combinare anche solo le proprie conoscenze, ma lo scopo è quello di condividerle e renderle disponibili.

Anche diversi criteri di ordinamento sono combinazioni, perché offrono punti di vista diversi sullo stesso insieme di informazioni. L’idea è prendere un punto di vista e rileggere le stesse cose da altri punti di vista.

4. Internalizzazione: in questa fase si acquisisce conoscenza esplicita, possibilmente combinata, e la si trasforma in conoscenza tacita; questo vuol dire che bisnogna prendere i contenuti e l’eventuale conoscenza tacita che questi implicano, e inserirli organicamente nella conoscenza tacita posseduta. Diventa un’azione profondamente individuale perché la conoscenza tacita è nella conoscenza degli individui. Allo stesso modo possiamo dire che questa internalizzazione può avvalersi anche del confronto di alcuni elementi di socialità con gli altri.

È una fase di apprendimento, perchè questo in genere ha una fase individuale in cui si deve capire se quello che si è acquisito e condiviso è parte organica della propria conoscenza tacita; si deve riuscire a ricostruire un insieme di concetti e relazioni tra concetti che si allarga e si amplia, ma che resti coerente.

Un modo con cui la fase di apprendimento diventa molto proficua è il learning by doing; si reputa importante per aumentare la capacità di internalizzazione della conoscenza costruire intorno alla conoscenza esplicita un livello di esperienza che mi porta a recuperare la mia conoscenza tacita e ad ampliarla.

Dal punto di vista individuale, questo ciclo è un arricchimento; dopo aver 'internalizzato' si è pronti per ricominciare a risocializzare la propria conoscenza tacita e ripartire per il ciclo successivo.


Le fasi di socializzazione e combinazione sono, dunque, l’integrazione di conoscenza tacita ed esplicita, quindi c’è un arricchimento per composizione. Le altre due fasi (di esternalizzazione e internalizzazione) fanno riferimento alla conoscenza esplicita che diventa tacita.
Nel passaggio da tacito a esplicito si perde qualcosa, perché la conoscenza tacita non passa da quella esplicita. La combinazione supporta l’operazione, ma è l’internalizzazione che compensa, sulla base della composizione di conoscenze, quello che può essere stato perso precedentemente. Quando si socializza nuovamente si ricombinano le cose. Quindi, complessivamente, quella conoscenza viene rimessa in circolo nel ciclo successivo.

Caratterizzazione delle quattro trasformazioni:

· T -> T crea un campo (background) comune di comunicazione

· T -> E individua dei concetti, crea consenso, motivazione; si parla di concetti e relazioni, conoscenza concettuale, bisogna trovare un linguaggio per esprimere la conoscenza

· E -> E crea un sistema di conoscenze

· E -> T viene chiamata conoscenza operativa: vuol dire che l’internalizzazione ha successo quando la conoscenza può essere messa in gioco, quando siamo in grado di applicarla, quando diventa uno strumento operativo, e non solo un accesso interiorizzato.

La spirale, vista all’interno di una struttura organizzativa, può espandersi; questi meccanismi possono avvenire non solo tra individuo e gruppo, ma anche attraverso gruppi dell’organizzazione, e anche tra reti di organizzazioni. Nonaka pensa che questo modello possa applicarsi anche in queste condizioni, sempre partendo dal presupposto che la condivisione e generazione di conoscenza a tutti i livelli sia un aspetto positivo; non spiega però come avvenga questo meccanismo.

Questo è il contributo più debole di Nonaka, perché non caratterizza molto bene neanche cosa si intende per gruppo, e quali gruppi vadano bene; questo punto non viene approfondito.

Negli anni ’90 c’è stato un contributo che complementa la posizione di Nonaka, con una visione che spiega meglio l’asse delle ascisse, e che per questo motivo si compone in maniera naturale col discorso di Nonaka. I nomi di riferimento sono Etienne Wenger e jean Lave. Essi hanno lavorato insieme, e osservando le modalità con cui funzionano le varie componenti delle organizzazioni, hanno enfatizzato e analizzato i flussi comunicativi, analizzando e intervistando le persone mentre lavoravano; quindi non si guarda più troppo al contenuto, ma più come questi contenuti si muovono all’interno delle strutture organizzative.

Un’osservazione importante che hanno fatto è che i flussi comunicativi in azienda non seguivano una struttura gerarchica (ruoli, dipartimenti, ecc); nella visione classica di solito c’è un flusso di comunicazione dall’alto verso il basso, con un flusso di ritorno che consentisse un controllo sulle cose fatte (come un ciclo di controllo classico, di feedback). Si pensava che in un’organizzazione, anche avendo tanti flussi, essi seguissero la struttura gerarchica; quindi si controllava che le decisioni venissero attuate (questo era il modello ideale).

Poi andando a vedere come le cose avvenivano davvero, c’erano molti flussi non previsti, non pianificati, molto spesso nascosti, protetti, lungo i quali c’era il massimo contenuto di conoscenza; mentre quelli gerarchici erano di controllo, questi erano incontrollati, naturali, ed erano quelli con cui l’azienda sopravviveva.


L’importanza dei meeting ufficiali si è dimostrata limitata, perché dal punto di vista della conoscenza non ne veniva generata.

3.3 Considerazioni pratiche sul modello

Ci si chiede se tutti questi passaggi siano veramente necessari, o se siano dei cortocircuiti: in realtà la combinazione non sembra veramente fondamentale; esiste apprendimento anche senza passare per la conoscenza esplicita, perché l'integrazione della conoscenza tacita non esclude che poi si possa aver bisogno di fare un internalizzazione, senza passare dalla conoscenza esplicita.

Anche l'esternalizzazione può essere opzionale, perchè non tutti divulgano le loro conoscenze, oppure perchè in alcuni casi non si è imparato nulla e di conseguenza non si ha nulla da esternare.

Come affermato da Nonaka, non bisogna essere rigidi e passare sempre per tutte e quattro le fasi, ma si può benissimo parlare di acquisizione di conoscenza anche senza passare per l’esternalizzazione. Questo è un modello analitico, che quindi serve per capire, per scomporre un fenomeno per poterlo padroneggiare; questi fenomeni avvengono in modo molto più sfumato di quello che il modello lascia pensare, non avvengono in maniera esclusiva. E' un modello che serve per capire, non per rappresentare esattamente quello che succede nella realtà; dà una chiave interpretativa, fa cogliere (ad esempio) aspetti prevalenti di socializzazione rispetto a quelli di internalizzazione. Questo modello focalizza degli aspetti, ma la realtà è la composizione di tutti questi aspetti messi insieme, che noi come osservatori possiamo recuperare.

Il modello può essere usato per creare dei supporti al fatto che questa spirale sia il più produttiva possibile; ci possono essere misure di tipo organizzativo, o di tipo tecnologico (ad esempio pensando a un’azienda, che ha una leva organizzativa e una tecnologica).

Dal punto di vista organizzativo punta a favorire la socializzazione nel quotidiano; se si pensa a strutture con ritmi di lavoro eccessivi, in questo caso vorrebbe dire favorire la perdita di tempo dedicata anche al chiacchierare nei corridoi, gli incontri casuali non pianificati, sempre rimanendo nell’ambito del buon senso. In un’azienda distribuita la socializzazione diventa difficile, quindi l’azienda deve porsi il problema di come favorire questo aspetto, non solo in termini di scambio di informazioni per il lavoro, ma come contesto di riferimento. Quando l'organizzazione è difficile, si ricorre alla tecnologia.

Anche l’esternalizzazione viene favorita, perché vuol dire creare un punto di partenza per la diffusione di informazione e conoscenza; favorire tecnologicamente e organizzativamente l’esternalizzazione è importante. Gli strumenti necessari non sono necessariamente coincidenti con quelli che favoriscono la socializzazione: sono due fenomeni diversi, e richiedono strumenti diversi.

Bisogna anche dare i giusti tempi per l’apprendimento, perché questo richiede tempo e riflessione. In questo modo si può pensare di favorire un processo complessivo cercando di favorire ciascuna fase con degli strumenti adatti; si può incentivare l’esternalizzazione (alcuni potrebbero essere gelosi delle proprie conoscenze e non volerle condividere); ci sono diverse misure che questo modello suggerisce alle aziende, in termini di cultura della condivisione.

La competizione può essere uno strumento utilizzato, ma non deve essere la filosofia finale; un gruppo può competere con un altro per fare un elaborato migliore, ma lo scopo finale deve essere quello di rendere tutti i lavori disponibili, per ottenere il massimo della qualità e della condivisione. La competitività stimola la creatività delle persone, aiuta a tirar fuori il meglio di sé stessi, ma non quando è eccessiva. Chi si schiera per la competitività o per la non competitività è perché non è in grado di distinguere una buona competitività da una cattiva. Bisogna anche stare attenti a non far soccombere chi non è competitivo.

L’organizzazione deve avere il buon senso di cogliere gli aspetti positivi e negativi senza esagerare né da una parte né dall’altra; per il bene dell’azienda è vitale una qualche forma di comunicazione, magari dopo alcune fasi più competitive, altrimenti cade tutta la tematica della gestione della conoscenza. È vero che le resistenze individuali per vari motivi possono creare intoppi, ma una buona organizzazione sa gestire questi eccessi. Un’azienda potrebbe decidere di licenziare chi collabora di meno, chi non esternalizza e non mette in circolo la propria conoscenza.

Investire massicciamente su tutta l’azienda in processi di gestione della conoscenza è dispendioso per l’azienda stessa, quindi è importante saper identificare gli elementi cruciali, o i progetti pilota, o i punti dove sono già in atto buone pratiche di condivisione per portarle come esempio in altri aspetti dell’azienda. Questo processo deve essere continuamente seguito e alimentato dal management.

Una tecnica usata è creare delle finte situazioni di crisi, o caotiche, in cui si possono adombrare dei rischi non proprio reali, ma magari esasperati (ad esempio difficoltà economica) per creare una reazione da parte delle persone. È importante governare bene il processo per evitare troppa competitività che può creare uno scompenso, a cui dovranno seguire compensazioni per ricostruire le relazioni tra le persone.

In queste riflessioni non entrano pesantemente fattori di crisi economica, ma più di crisi dell’azienda che non è in grado di seguire l’evoluzione. La preoccupazione è quella di far capire che anche quando tutto va bene bisogna mantenere alta la soglia di attenzione.

4. Un modello di organizzazione della conoscenza. Le Comunità di Pratica (CoP)

4.1 Lave e Wenger
Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi hanno elaborato bene il modello di conoscenza, ma non si sono soffermati sugli aspetti organizzativi necessari per generarla. A tal fine, giunge il contributo occidentale di Lave e Wenger [Lave e Wenger, 1991; Wenger, 1998] riguardo la gestione della conoscenza in termini di dove all’interno delle organizzazioni avviene la creatività, l’innovazione, la gestione. Si è capito che questi meccanismi avvengono al di fuori delle organizzazioni formali, non si possono spiegare seguendo i flussi comunicativi tipici delle organizzazioni formali.

Per capire come fanno le persone a generare conoscenza, bisogna prima di tutto cogliere la distinzione che esiste tra le competenze di ognuno. Le competenze si dividono in:

1. competenze di dominio (tecniche)

2.competenze di relazione.

Gli studenti ad esempio acquisiscono competenze di base sulle discipline, non vengono ancora messe in atto (lo saranno quando entrano in azienda, e saranno quindi combinate per definire prodotti, servizi ecc). Le discipline servono come base per creare competenze combinate per progettare prodotti e la loro evoluzione. Ci sono competenze di disciplina (base), di prodotto (che cosa), di processo (come: i processi per produrre quei prodotti).

Quello che è emerso come fenomeno più recente è l’insieme di competenze che riguardano le relazioni tra le persone: ad esempio ho un problema, non lo so risolvere, ma so chi può aiutarmi a risolverlo. La conoscenza in questo caso non è di dominio. Sapere chi sa è un’altra competenza ricchissima, e lo stesso per il sapere chi può sapere. Le competenze sono chi sa che cosa; le relazioni sono chi sa chi può sapere.

Sostituire una persona che ha delle relazioni può diventare un problema, molto più che per le loro competenze tecniche (di dominio); è importante quanto queste persone sanno muoversi nel mondo. È interesse dell’azienda mantenere buone relazioni con quella persona.

4.1 Lave e Wenger

Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi hanno elaborato bene il modello di conoscenza, ma non si sono soffermati sugli aspetti organizzativi necessari per generarla. A tal fine, giunge il contributo occidentale di Lave e Wenger [Lave e Wenger, 1991; Wenger, 1998] riguardo la gestione della conoscenza in termini di dove all’interno delle organizzazioni avviene la creatività, l’innovazione, la gestione. Si è capito che questi meccanismi avvengono al di fuori delle organizzazioni formali, non si possono spiegare seguendo i flussi comunicativi tipici delle organizzazioni formali.

Per capire come fanno le persone a generare conoscenza, bisogna prima di tutto cogliere la distinzione che esiste tra le competenze di ognuno. Le competenze si dividono in:

1. competenze di dominio (tecniche)

2.competenze di relazione.

Gli studenti ad esempio acquisiscono competenze di base sulle discipline, non vengono ancora messe in atto (lo saranno quando entrano in azienda, e saranno quindi combinate per definire prodotti, servizi ecc). Le discipline servono come base per creare competenze combinate per progettare prodotti e la loro evoluzione. Ci sono competenze di disciplina (base), di prodotto (che cosa), di processo (come: i processi per produrre quei prodotti).

Quello che è emerso come fenomeno più recente è l’insieme di competenze che riguardano le relazioni tra le persone: ad esempio ho un problema, non lo so risolvere, ma so chi può aiutarmi a risolverlo. La conoscenza in questo caso non è di dominio. Sapere chi sa è un’altra competenza ricchissima, e lo stesso per il sapere chi può sapere. Le competenze sono chi sa che cosa; le relazioni sono chi sa chi può sapere.

Sostituire una persona che ha delle relazioni può diventare un problema, molto più che per le loro competenze tecniche (di dominio); è importante quanto queste persone sanno muoversi nel mondo. È interesse dell’azienda mantenere buone relazioni con quella persona.

4.2 Comunità di Pratica (CoP). Concetti generali

All’interno della struttura organizzativa c’erano dei gruppi di persone con caratteristiche fuori dalle strutture organizzative ufficiali; si tratta di gruppi legati da legami di disponibilità reciproca a darsi una mano a risolvere i problemi. Queste strutture para-organizzative non ufficiali si ritrovano ancora nelle moderne strutture organizzative, e si chiamano Comunità di Pratica (CoP).

Sono gruppi di persone che si sentono coese, e collaborano sulla base della spontaneità. Nascono perché si creano legami, affinità, scoperte di competenze analoghe o complementari, e così via, e fa si che questo gruppo non solo comunichi, ma costituisca un punto di riferimento quando ci sono delle difficoltà o problemi da risolvere.

La spontaneità è anche nell’auto-organizzazione; alcune di esse sono piatte, altre hanno una loro organizzazione all’interno, ma sono tutte più o meno collettivamente definite e accettate; non c’è potere, non è una distruzione della struttura organizzativa, ma c’è gestione della conoscenza e volontà di risolvere i problemi.

Sono persone legate da esperienze comuni, e condivisibili; il legame forte di queste comunità è determinato dalla risoluzione dei problemi; non sono comunità ideologiche, religiose, politiche.

È importante l’accoglienza: c’è un investimento nell’accogliere nuove persone, non sono sette chiuse e arroccate, ma sono aperte a persone interessate a interagire con loro per entrare nel giro della loro esperienza e delle loro conoscenze. Wenger parla di una partecipazione inizialmente periferica di una persona, che viene man mano guidata fino a far parte alla comunità di core. Questa disponibilità all’accoglienza è basata su un principio forte, quello della reciprocità: io mi impegno a dare qualcosa perché so che gli altri faranno lo stesso con me.

C’è anche la costruzione di una memoria: in qualche modo la comunità si dota di un supporto, magari non tecnologico (anche semplice carta), qualcosa di condivisibile e che consenta di costruire una stratificazione di queste esperienze e che tenga traccia degli scambi di conoscenza, in modo che non sia tutto basato sul ricordo. È una memoria interna, che può prendere diverse forme; ci possono essere anche un gergo, delle convenzioni, oppure documenti; conoscenza esplicita in una qualche forma.

Tutte queste attività sono extra-lavorative: una persona appartenente ad una comunità di pratica, continua il proprio lavoro ed allo stesso tempo aiuta e collabora per il gruppo. Se l'interesse e la condivisione di conoscenza dovesse venir meno, la comunità scompare senza che l'organizzazione se ne accorga: ci troviamo in un ambiente di totale invisibilità.

Dopo queste scoperte, si è iniziato a introdurre nel mondo della gestione della conoscenza un approfondimento di quella dimensione che Nonaka non aveva spiegato; si iniziò a di valorizzare queste comunità, sia dal punto di vista analitico che della comprensione dei fenomeni; questo significa che a partire da questo periodo le organizzazioni più aperte e disponibili, e più avanzate dal punto di vista della visione organizzativa, hanno iniziato a chiedersi se avevano all’interno queste comunità, e chiedersi come potevano gestirle e favorirle.

Ci si chiede come identificare una CoP, perché non è banale; ovviamente non la si trova nella documentazione ufficiale, e non si può cercare di seguire tutti i flussi comunicativi; saper rispondere a questa domanda vuol dire essere in grado di favorire le Cop. Quello che sicuramente non si può fare è chiedere alla comunità di dichiararsi, perché essa vuole una certa protezione rispetto all’organizzazione, è un organismo fragile e bisogna trattarlo con delicatezza.

Quando una comunità funziona ed è in grado di risolvere problemi, funziona sempre. Diventa critica quando si cominciano a rompere le affinità, e la comunità entra in crisi e c’è una dispersione di energia, ci sono flussi o che non avvengono o non sono più produttivi.

Queste comunità potrebbero essere in opposizione a un’organizzazione che funziona male, ma in genere apporta sempre benefici.

4.3 Definizioni di CoP

Non avendo una definizione completa e precisa col tempo questo concetto è stato usato e
“alterato” a piacimento, chiamando CoP gruppi di persone che non corrispondevano all’idea
iniziale.

Contestualmente si è assistito alla nascita di una pletora di termini che ha portato da una parte al tentativo di elaborazione dei concetti, dall’altra confusione e difficoltà nel confrontare casi ed esperienze. Oggi la situazione è che queste comunità vengono chiamate in vari modi e i termini non sono definiti in maniera univoca. Bisognerebbe vedere cosa si intende caso per caso, per avere un approccio rigoroso e scientifico, ed eventualmente ricondurre questi termini a tipologie meno numerose e più caratterizzate.

4.4 Caratteristiche di una CoP

Le caratteristiche delle CoP sono:

1) la spontaneità

2) la partecipazione

3) la reciprocità

Le CoP sono orientate al problem solving, il che è insito nel termine pratica. E’ una sorta di extra lavoro, qualcosa di non previsto, in cui tutti continuano a svolgere i propri compiti.

Oltre alle caratteristiche che le determinano, un altro aspetto interessante delle CoP è la legittimazione, intesa come il riconoscere da un lato il singolo individuo (mantenendo la sua identità all'interno della comunità in tutta la sua ricchezza, contro l’omologazion, e accettandone la sua diversità), e dall’altro lato molteplici individui (sono anche quei legami forti che se rotti o violati rompono la comunità, o portano l’individuo a essere espulso dalla comunità. L'idea di fondo è l'essere legati alla risoluzione del problema).

Altro aspetto importante è la reificazione, ovvero il fatto di oggettivare ed esternalizzare concetti, relazioni, e tutto ciò che la comunità costruisce come conoscenza; costruisce una sorta di memoria che può essere legata al linguaggio (la costruzione di un linguaggio comune) ma può essere vista anche come memoria su un supporto (qualcosa che persiste, che la CoP crea e mette a disposizione di tutti i membri, ed eventualmente di quelli che entrano, perché possano usufruire dell’esperienza passata).

Infine, una grande importanza è rivestita dalla negoziazione delle “regole" all'interno della Cop. Le regole di funzionamento di questa comunità sono definite in maniera locale e soggiacciono alla particolare struttura della CoP, diversa da quella solita e formale che si trova nelle organizzazioni. Alcune regole particolarmente importanti per la vita della CoP possono essere il mantenimento della memoria, le modalità di accoglienza, etc. Tali regole possono essere convenzionali oppure esplicite, perché non è detto che siano sempre totalmente formalizzate. Chi non è d’accordo può cercare di dissentire, e di far cambiare alcune cose.

Alla base di tutte le caratteristiche che determinano la Cop vi è una dialettica tra competenze e pratica: le competenze da sole influenzano il comportamento della CoP; se legate alla pratica definiscono la risoluzione dei problemi. Ciascuno deve conquistare sul campo la propria competenza e autorevolezza. È una partecipazione che costa, che richiede sforzo, ed è molto dinamica. Partecipare ad una CoP vuol dire essere disposti a fare qualcosa in più del dovuto. Quando la CoP realizza che il costo è maggiore di quello che si ottiene o si sfalda oppure l’individuo viene estromesso.

Come si può rendere operativo questo concetto in termini organizzativo-tecnologici?

Dal punto di vista organizzativo riconoscere una CoP, che è un corpo non previsto: come trattarla?

Qualcosa di positivo o negativo?

Favorirla o no?

Dal punto di vista tecnologico sapere che un gruppo di persone è o non è una CoP ha una grossa implicazione sulla progettazione della tecnologia di supporto perché se un gruppo di persone è una CoP, la tecnologia non deve intralciare o imporre qualcosa che è già garantito dalla comunità stessa, ma puntare sulla costruzione della memoria senza preoccuparsi di creare legami o almeno farlo in maniera differenziata tra chi entra e chi è già dentro. Bisogna stimolare il potenziale membro della comunità a diventare tale. La tecnologia deve adeguarsi e non interferire nelle relazioni perché rischia di essere un elemento distruttivo.

Usare il termine “costruire” riferendosi alla Cop è errato: è possibile supportarla e favorirla tecnologicamente, ma è impossibile costruirla o crearla. Strutturare un’organizzazione come CoP è una contraddizione.

Nell’osservare questi flussi comunicativi informali si è visto che questa modalità era efficace, altrimenti non si sarebbe inventato questo concetto.

4.5 Come riconoscere una CoP

Il riconoscimento della Cop è importante per le aziende per capire cosa succede, e una volta riconosciuta, è fondamentale fare in modo che le decisioni messe in atto non influiscano sulla CoP stessa, per evitare che venga danneggiata.

Non è facile entrare in un’organizzazione e riconoscerla in maniera immediata perchè le persone possono essere molto diverse e non aderiscono a standard fissi. Il punto cruciale è il legame che si crea. Sarebbe opportuno trovare degli strumenti di riconoscimento non banali. Per fare questo, ci si sofferma su alcuni passaggi e concetti chiave:

a. omogeneità vs eterogeneità: è più facile che trovi una comunità tra persone con le stesse caratteristiche con gli stessi ruoli o tra persone eterogenee, con competenze diverse?

Ci sono CoP caratterizzate da omogeneità di individui (ruoli, competenze, responsabilità), e questo è comprensibile, perché il problem solving si esercita sulle stesse cose. Ma questa non è una caratteristica primaria, perché ci sono anche CoP che riescono a creare quei legami anche essendo eterogenee. Quindi queste caratteristiche non sono caratterizzanti.

Possiamo dire che le comunità molto omogenee hanno una grossa coesione dal punto di vista dell’abitudine a risolvere problemi, quindi si consolidano in fretta ma rischiano di essere conservatrici, talvolta non sono in grado di generare nuova conoscenza, rivelandosi poco dinamiche. L’eterogeneità è meno statica e può portare scontri e litigi rappresentando una potenziale fonte di tensioni, e quindi anche di crisi. Ci sono aspetti positivi e negativi che si complementano.

b. dimensione del gruppo: sono comunità numerose o fatte da poche persone?

Anche qui, ci sono CoP di poche unità, poche decine di persone, e ce ne sono invece di molto più grandi. Neanche questo è un elemento caratterizzante. Se il gruppo è piccolo è più facile negoziare regole, stabilire una memoria. In una CoP grande, invece, può avvenire che si creino delle sottocomunità integrate (non completamente autonome), che hanno motivazioni più omogenee, che mantengono dei legami comunque forti.

c. pratica: intesa come riconoscimento delle pratiche, cioè dei gruppi di problemi, di motivazioni operative per cui le persone si organizzano in comunità. Si tratta di riconoscere comportamenti, flussi comunicativi, ricorrenze nel modo di comportarsi che possono essere legate al problem solving: è un criterio, ma non è sempre semplice e nucleare perché dietro al problem solving ci può essere di tutto.

È più semplice che la CoP emerga dentro un’organizzazione, rispetto al caso in cui attraversi più organizzazioni (inter-organizzazione).

4.6 Tipologie di CoP

Le CoP possono essere reali o virtuali ed in questa distinzione è fondamentale il ruolo della tecnologia, che nei punti citati finora non aveva grande influenza. La tecnologia porta anche il campo di indagine alle comunità virtuali, anche senza la partecipazione fisica alla stessa struttura ed anche se le persone non si incontrano spesso. La tecnologia deve quindi sia lavorare nell’organizzazione, che supportare una comunità di persone distanti.

Può esserci una sorta di effetto domino: prendendo più persone di diverse comunità si rischia di coinvolgere individui che hanno si relazioni ma appartengono a CoP diverse, perché spesso persone di diverse comunità sono in comunicazione tra di loro, in diversi modi. E' quello che accade con lo scambio di informazioni o partecipazione multipla (una stessa persona può partecipare a più comunità). Questa partecipazione multipla può essere di due tipi:

- consapevole (la comunità è cosciente che un suo membro appartiene a diverse CoP e ne trae vantaggi);

- inconsapevole (la comunità non riesce a percepire l'appartenenza multipla del membro a più Cop ma ne trae comunque vantaggi dato che le persone portano dentro esperienze senza magari caratterizzarle come derivanti da altre CoP).

Da osservare sono i risultati di queste attività, che sono identificabili da punti di efficienza di conoscenza vitale (core KN). Il manager può identificare zone dell'organizzazione che funzionano molto bene, dove c’è molta conoscenza e innovazione, e li probabilmente ci possono essere meccanismi virtuosi legati a queste CoP. Può essere interesse del manager costruire una protezione intorno a queste CoP, per favorirla.

Le CoP sono dinamiche, non solo per il fatto che ci sono persone che entrano e che escono ma anche perchè, prima di diventare totalmente operative, affrontano varie fasi.

Può essere utile percepire la costruzione di una memoria: è un indicatore forte di queste caratteristiche. Non si parla di una documentazione ufficiale, ma una memoria locale, di lavoro, di servizio, senza la quale l’azienda sopravvivrebbe ugualmente.

4.7 Fasi di una Cop

Una comunità può essere vista come un organismo vivente, che evolve passando attraverso diverse fasi, che caratterizzano le attività. Questa stratificazione di fasi è nata dall’esperienza di osservazione di quello che si trova nelle strutture organizzative, quindi nasce dalla pratica.

- Prima fase: potenziale

Gli individui si costituiscono in un gruppo condividendo interessi comuni. Questa fase è quella più difficilmente osservabile, e talvolta dopo questa fase non c’è più niente, la comunità si dissolve. In questa fase i supporti naturali sono quelli alla comunicazione, all’incontro, alla narrazione reciproca;

- Seconda fase: costruzione

La CoP costruisce tutti gli elementi che le consentono di funzionare: la comunicazione, l’ambito di interesse (che cosa vogliono condividere, cosa intendono come pratica), le regole di funzionamento, i ruoli e la "memoria” (che può essere qualcosa che evolve nel tempo). Anche in questo caso c'è la possibilità che la comunità non parta.

Si comincia a discutere se l’idea iniziale è fattibile oppure no. A questo punto c’è ancora fortissimo il rischio che la comunità non evolva, magari per via del rapporto tra costo e beneficio. Le attività mettono a punto strumenti e tecnologie essenziali per applicare le regole;

- Terza fase: impegno

Rappresena l'attivazione, la fase di prova, dove si iniziano ad applicare in maniera attiva le regole, e si verifica che la cosa sia realistica (ci si mette alla prova). C'è una verifica di fattibilità che può anche portare a un fallimento. Vi è la correzione di eventuali errori;

- Quarta fase: messa in attività

Le regole sono state testate, funzionano, quindi si inizia a lavorare: la CoP diventa operativa al 100%, la memoria, la reciprocità e l'accoglienza vengono mantenute nel tempo. Si inizia a generare conoscenza;

- Quinta fase: adattativa

Riguarda il cambiamento, la trasformazione.La tecnologia è più leggera perché prevale la negoziazione tra persone;

- Sesta fase: di evoluzione

Se la comunità è forte ed efficiente si potrebbe anche pensare di dare una struttura diversa, modificare le regole per ampliare il mio spettro di membri e d'azione. Tale evoluzione è da considerarsi positiva, anche nel caso in cui la comunità si smembri in più comunità per motivi di crescita e di semplificazione del lavoro.

Può succedere che la CoP fallisca in qualsiasi momento; quando questa scompare si rompono anche i legami tra le persone come individui, quindi è sempre qualcosa di negativo.

Queste sono fasi analitiche di buon senso che servono per analizzare una sequenza di stadi, e come nel caso di Nonaka per evidenziare attività e supporti che ciascuna fase potrebbe usare per evolversi. Possono aiutare a riconoscere la comunità perché una CoP deve necessariamente trovarsi in una qualsiasi di queste fasi ed è importante saper leggere i fenomeni che si osservano.

Non è necessario che tutte queste fasi siano eseguite nello stesso ordine infatti per esempio si potrebbe partire subito dalla fase operativa. Oppure, dato che la CoP può trattare diversi aspetti di problem solving e KM, magari è attiva per alcune fasi e in formazione per altre.

Questa visione a fasi riguarda il comportamento interno della CoP, ma ci sono anche fasi e situazioni, o relazioni, indipendenti a queste che riguardano i rapporti tra CoP e organizzazioni:

esempio 1: l’organizzazione può non percepire l’esistenza di questa CoP o perché non ha la cultura per farlo oppure perché la comunità si nasconde bene.

esempio 2: la CoP fa di tutto per non essere riconosciuta (“carbonara”): la comunità teme che se si fa riconoscere verrà combattuta o distrutta dall’organizzazione.

esempio 3: la CoP è legittimata: l’organizzazione la percepisce o la comunità è sufficientemente attiva per farsi percepire, e l’organizzazione non la osteggia ma anzi la favorisce.

esempio 4: la comunità strategica: la relazione è estremamente positiva perché non solo l’organizzazione la riconosce ma la considera strategica e quindi la protegge l’aiuta a mantenere la vitalità in quanto crede che il suo operato sia importante per l’azienda. Se l’azienda è furba, a fronte di un’esperienza positiva, anch'essa stessa si pone in quell’ottica.

esempio 5: l'organizzazione è trasformativa: la CoP viene protetta ma riesce anche ad avere dei grossi effetti al di fuori della comunità stessa in quanto può anche mettersi in mostra con altre comunità per la propria efficacia.

Queste relazioni possono anche essere viste come possibili evoluzioni, magari all’inizio una CoP si nasconde, poi per qualche motivo può venire riconosciuta, legittimata, e così via.

4.8 Fasi di una Cop vs Nonaka

Cerchiamo di creare delle relazioni tra queste fasi e quelle di Nonaka (modello SECI).
Fase potenziale: è in relazione con la socializzazione (T -> T): si valuta se abbiamo un orizzonte comune.

Fase di costruzione: è in relazione con esternalizzazione e combinazione (perché queste regole devono poi essere rese omogenee anche se ognuno cerca di proporre il suo modello che viene negoziato e combinato con quelli degli altri).

Fase di impegno: è in relazione con la socializzazione (se si deve discutere delle cose che non vanno bene), e la combinazione (se tutto va bene si combina, si va avanti, altrimenti si torna indietro, si può cominciare a rinegoziare).

Fase attiva è in relazione con la combinazione (prevalentemente); poi può avvenire su altri aspetti di conoscenza (socializzazione, esternalizzazione, e combinazione su altra conoscenza). Qui c’è anche l’internalizzazione: mettere in pratica è il modo migliore per imparare e tutto questo è stato costruito per far si che la conoscenza cresca, che la spirale si alimenti e che la fatica collettiva ripaghi il singolo.

Fase adattativa: dato che c’è un evoluzione che deve essere negoziata, c’è sicuramente una fase di socializzazione (ci si divide, ci si dà delle regole, si rinegozia ad un livello più alto).

La CoP non è una struttura necessariamente piatta, in cui tutti fanno la stessa cosa ma ci possono essere ruoli diversi. Wenger ha individuato ruoli vitali e riconosce la diversità non solo nelle competenze tecniche ma anche nelle capacità delle persone. Ci possono essere diversi tipi di leadership:

- colui che dà l’ispirazione (facendo domande strane, dando stimoli a chi può magari rispondere come ad esempio il leader di un gruppo di ricerca);

- i portatori d’acqua: colui che dice che le cose devono comunque funzionare, e cerca di mettere in atto i meccanismi della comunità;

- il leader classificatore, che mette in ordine la conoscenza generata e crea la memoria.

- poi c’è la leadership di colui che è in grado di risolvere i conflitti (ad esempio colui che è in grado di far ragionare due persone);

- i leader capaci ad aprire la loro storia verso altre comunità: il boundary;

- colui che tiene in maniera costruttiva le relazioni con il resto dell’organizzazione e che è in grado di parlare col management;

- la "persona fantasiosa" che promuove attività interne per migliorare la conoscenza (questa figura non è estremamente fondamentale).

4.9 Le Dimensioni delle CoP secondo J.H.Erik Andriessen

J.H.Erik Andriessen ha analizzato casi, fatto una rassegna della letteratura e ha distillato da questa analisi un lavoro di ‘clustering’, cercando di raggruppare classi di casi e di caratteristiche in modo da creare tipologie che riducessero il nome e il numero di termini usati.

In questo lavoro ha evidenziato due caratteristiche che consentivano di discriminare situazioni indipendentemente dai termini con cui venivano denotate, e sulla base di queste due dimensioni ha identificato una serie di insiemi, di situazioni, e ha dato dei nomi perché i casi potessero essere ricondotti ad una stessa tipologia. Allo stesso tempo ha definito anche un modo per collocare le eventuali situazioni in cui ci si può trovare analizzando comunità di pratica sulla base di questi due indicatori.

Queste due dimensioni sono la connettività e l’istituzionalizzazione della CoP.

Per connettività si intende il grado di coesione del gruppo non solo in termini di connessione fra le persone, ma anche di legami che si creano tra esse.

L'istituzionalizzazione sta a significare quanto la comunità viene riconosciuta dall’organizzazione facendo riferimento al rapporto tra la comunità e l’organizzazione che la ospita. Rappresenta l’accettazione o la volontà di nascondersi della comunità rispetto all’organizzazione.

I raggruppamenti che ha identificato sono legati a un livello basso, medio e alto di connettività, e a un livello basso oppure alto di istituzionalizzazione.

Possiamo quindi pensare che lo spazio sia idealmente diviso in sei settori. Andriessen colloca in questi settori i casi che descrive, ma anche le caratteristiche che attribuisce ai termini utilizzati per caratterizzare i settori stessi. Le CoP hanno alta coesione e bassa istituzionalizzazione. Le comunità strategiche (trasformative) che l’organizzazione favorisce e protegge hanno alta coesione e alta istituzionalizzazione.

Poi identifica bassa connettività e bassa istituzionalizzazione nei gruppi di interesse, che in generale non sono istituzionalizzati. In essi ci può essere un tema più o meno serio che coinvolge tutti, dove però non c’è impegno reciproco a rispondere a qualcuno o a condividere tutta la propria conoscenza e l’interesse viene dichiarato ma non richiede molto impegno.

Ad un livello intermedio, ma con bassa istituzionalizzazione, si inizia a parlare di network informale, ovvero qualcosa di più connesso di un gruppo, ma non ancora a livello di comunità. Questa classe è nata dal fatto che spesso nelle organizzazioni e anche inter-organizzazioni ci sono dei network che si mantengono in modo informale e spontaneo, con regole lasche, ma con dei committment più forti di quelli del gruppo e che mantengono le relazioni tra di loro (ad esempio perché hanno avuto esperienze in comune). La classica tipologia che rappresenta al meglio questo gruppo è data da persone formate in azienda, che uscendo da essa mantengono legami con le persone con cui si trovavano bene. Tale struttura organizzativa ha molto valore per le aziende in quanto si mantiene spontaneamente ed è legata dall’aiuto reciproco.

LinkedIN, ad esempio, è nato proprio per rispondere a questa esigenza. Questi legami sono importanti per le aziende, perché aumentano le capacità di problem solving a basso costo. Grazie alla mobilità, questo tipo di network informale costituisce una specie di ragnatela che avvolge le aziende che insieme costituiscono una risorsa collettiva chiamata in generale collective intelligence. Il “sapere chi sa” può essere gestito in modo diverso da un’organizzazione: questo invece è un sistema totalmente autogestito.

E' un fenomeno che è sempre esistito perché la rete sociale di ex colleghi è sempre stata mantenuta e la tecnologia ha dato un alto impulso in questo senso. Il pregio è la maggiore connettività ma con la possibilità di formare legami anche banali e insignificanti tali da portare ad una socializzazione a livello più basso.

Facendo riferimento a gruppi che stanno nei quadranti medio-alti della connettività e verso un riconoscimento e un incentivo alla loro sopravvivenza da parte delle aziende, si parla spesso di social capital, inteso dal punto di vista della struttura sociale. Se ne parla in relazione alle CoP perché esse sono il luogo dove questo capitale sociale viene sviluppato in tutta la sua ricchezza. (se si scende nello schema, qualche dimensione si indebolisce).

Il capitale sociale viene definito secondo tre dimensioni:

1) Dimensione strutturale

2) Dimensione di relazione

3) Dimensione di conoscenza

Il social capital è l’evoluzione e l’opposizione di quello che viene definito individual capital o human capital. Il primo passo di valorizzazione della conoscenza in un'azienda passa attraverso l’individuo: è importante considerare la persona come un asset dell’azienda stessa. Senza voler negare l’importanza del capitale umano e dell’individualità, ci si è resi conto che l’apprendimento è un processo sociale e pertanto ha senso pensare alle persone dentro la rete sociale, non all’umano da solo.

Questo passaggio giustifica queste tre dimensioni con cui è definito il social capital. La dimensione strutturale si riferisce ai legami tra le persone, riconoscendo che non è detto che la connettività sia uniforme su tutto il gruppo di persone, ma l’importante è che abbia una certa sostanza.

La dimensione di relazione passa dalla sintassi (grado di relazione) al significato, ovvero che tipo di relazione lega queste persone. Si fa riferimento ad alcuni tipi di legame (ad esempio quanto una persona si sente impegnata nei confronti dell’altro: obbligation, dimensione dell’impegno reciproco, quanto ci si fida degli altri, etc.).

La dimensione di conoscenza riconduce alla dimensione umana perché il contenuto di conoscenza è quello che le persone scambiano, che sia essa tacita o esplicita, etc. Questa conoscenza è vista come prodotto dell’elaborazione delle conoscenze individuali e pertanto si torna nuovamente al ciclo di Nonaka interpretato in un altro modo.

Il social capital valorizza molto anche le relazioni esterne all’azienda (network informale) questo perché non è importante solo ciò che un individuo sappia qualcosa, ma anche il come tale conoscenza venga esportata verso l’esterno.