Visualizzazione post con etichetta CoP. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta CoP. Mostra tutti i post

maggio 11, 2010

4. Un modello di organizzazione della conoscenza. Le Comunità di Pratica (CoP)

4.1 Lave e Wenger
Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi hanno elaborato bene il modello di conoscenza, ma non si sono soffermati sugli aspetti organizzativi necessari per generarla. A tal fine, giunge il contributo occidentale di Lave e Wenger [Lave e Wenger, 1991; Wenger, 1998] riguardo la gestione della conoscenza in termini di dove all’interno delle organizzazioni avviene la creatività, l’innovazione, la gestione. Si è capito che questi meccanismi avvengono al di fuori delle organizzazioni formali, non si possono spiegare seguendo i flussi comunicativi tipici delle organizzazioni formali.

Per capire come fanno le persone a generare conoscenza, bisogna prima di tutto cogliere la distinzione che esiste tra le competenze di ognuno. Le competenze si dividono in:

1. competenze di dominio (tecniche)

2.competenze di relazione.

Gli studenti ad esempio acquisiscono competenze di base sulle discipline, non vengono ancora messe in atto (lo saranno quando entrano in azienda, e saranno quindi combinate per definire prodotti, servizi ecc). Le discipline servono come base per creare competenze combinate per progettare prodotti e la loro evoluzione. Ci sono competenze di disciplina (base), di prodotto (che cosa), di processo (come: i processi per produrre quei prodotti).

Quello che è emerso come fenomeno più recente è l’insieme di competenze che riguardano le relazioni tra le persone: ad esempio ho un problema, non lo so risolvere, ma so chi può aiutarmi a risolverlo. La conoscenza in questo caso non è di dominio. Sapere chi sa è un’altra competenza ricchissima, e lo stesso per il sapere chi può sapere. Le competenze sono chi sa che cosa; le relazioni sono chi sa chi può sapere.

Sostituire una persona che ha delle relazioni può diventare un problema, molto più che per le loro competenze tecniche (di dominio); è importante quanto queste persone sanno muoversi nel mondo. È interesse dell’azienda mantenere buone relazioni con quella persona.

4.1 Lave e Wenger

Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi hanno elaborato bene il modello di conoscenza, ma non si sono soffermati sugli aspetti organizzativi necessari per generarla. A tal fine, giunge il contributo occidentale di Lave e Wenger [Lave e Wenger, 1991; Wenger, 1998] riguardo la gestione della conoscenza in termini di dove all’interno delle organizzazioni avviene la creatività, l’innovazione, la gestione. Si è capito che questi meccanismi avvengono al di fuori delle organizzazioni formali, non si possono spiegare seguendo i flussi comunicativi tipici delle organizzazioni formali.

Per capire come fanno le persone a generare conoscenza, bisogna prima di tutto cogliere la distinzione che esiste tra le competenze di ognuno. Le competenze si dividono in:

1. competenze di dominio (tecniche)

2.competenze di relazione.

Gli studenti ad esempio acquisiscono competenze di base sulle discipline, non vengono ancora messe in atto (lo saranno quando entrano in azienda, e saranno quindi combinate per definire prodotti, servizi ecc). Le discipline servono come base per creare competenze combinate per progettare prodotti e la loro evoluzione. Ci sono competenze di disciplina (base), di prodotto (che cosa), di processo (come: i processi per produrre quei prodotti).

Quello che è emerso come fenomeno più recente è l’insieme di competenze che riguardano le relazioni tra le persone: ad esempio ho un problema, non lo so risolvere, ma so chi può aiutarmi a risolverlo. La conoscenza in questo caso non è di dominio. Sapere chi sa è un’altra competenza ricchissima, e lo stesso per il sapere chi può sapere. Le competenze sono chi sa che cosa; le relazioni sono chi sa chi può sapere.

Sostituire una persona che ha delle relazioni può diventare un problema, molto più che per le loro competenze tecniche (di dominio); è importante quanto queste persone sanno muoversi nel mondo. È interesse dell’azienda mantenere buone relazioni con quella persona.

4.2 Comunità di Pratica (CoP). Concetti generali

All’interno della struttura organizzativa c’erano dei gruppi di persone con caratteristiche fuori dalle strutture organizzative ufficiali; si tratta di gruppi legati da legami di disponibilità reciproca a darsi una mano a risolvere i problemi. Queste strutture para-organizzative non ufficiali si ritrovano ancora nelle moderne strutture organizzative, e si chiamano Comunità di Pratica (CoP).

Sono gruppi di persone che si sentono coese, e collaborano sulla base della spontaneità. Nascono perché si creano legami, affinità, scoperte di competenze analoghe o complementari, e così via, e fa si che questo gruppo non solo comunichi, ma costituisca un punto di riferimento quando ci sono delle difficoltà o problemi da risolvere.

La spontaneità è anche nell’auto-organizzazione; alcune di esse sono piatte, altre hanno una loro organizzazione all’interno, ma sono tutte più o meno collettivamente definite e accettate; non c’è potere, non è una distruzione della struttura organizzativa, ma c’è gestione della conoscenza e volontà di risolvere i problemi.

Sono persone legate da esperienze comuni, e condivisibili; il legame forte di queste comunità è determinato dalla risoluzione dei problemi; non sono comunità ideologiche, religiose, politiche.

È importante l’accoglienza: c’è un investimento nell’accogliere nuove persone, non sono sette chiuse e arroccate, ma sono aperte a persone interessate a interagire con loro per entrare nel giro della loro esperienza e delle loro conoscenze. Wenger parla di una partecipazione inizialmente periferica di una persona, che viene man mano guidata fino a far parte alla comunità di core. Questa disponibilità all’accoglienza è basata su un principio forte, quello della reciprocità: io mi impegno a dare qualcosa perché so che gli altri faranno lo stesso con me.

C’è anche la costruzione di una memoria: in qualche modo la comunità si dota di un supporto, magari non tecnologico (anche semplice carta), qualcosa di condivisibile e che consenta di costruire una stratificazione di queste esperienze e che tenga traccia degli scambi di conoscenza, in modo che non sia tutto basato sul ricordo. È una memoria interna, che può prendere diverse forme; ci possono essere anche un gergo, delle convenzioni, oppure documenti; conoscenza esplicita in una qualche forma.

Tutte queste attività sono extra-lavorative: una persona appartenente ad una comunità di pratica, continua il proprio lavoro ed allo stesso tempo aiuta e collabora per il gruppo. Se l'interesse e la condivisione di conoscenza dovesse venir meno, la comunità scompare senza che l'organizzazione se ne accorga: ci troviamo in un ambiente di totale invisibilità.

Dopo queste scoperte, si è iniziato a introdurre nel mondo della gestione della conoscenza un approfondimento di quella dimensione che Nonaka non aveva spiegato; si iniziò a di valorizzare queste comunità, sia dal punto di vista analitico che della comprensione dei fenomeni; questo significa che a partire da questo periodo le organizzazioni più aperte e disponibili, e più avanzate dal punto di vista della visione organizzativa, hanno iniziato a chiedersi se avevano all’interno queste comunità, e chiedersi come potevano gestirle e favorirle.

Ci si chiede come identificare una CoP, perché non è banale; ovviamente non la si trova nella documentazione ufficiale, e non si può cercare di seguire tutti i flussi comunicativi; saper rispondere a questa domanda vuol dire essere in grado di favorire le Cop. Quello che sicuramente non si può fare è chiedere alla comunità di dichiararsi, perché essa vuole una certa protezione rispetto all’organizzazione, è un organismo fragile e bisogna trattarlo con delicatezza.

Quando una comunità funziona ed è in grado di risolvere problemi, funziona sempre. Diventa critica quando si cominciano a rompere le affinità, e la comunità entra in crisi e c’è una dispersione di energia, ci sono flussi o che non avvengono o non sono più produttivi.

Queste comunità potrebbero essere in opposizione a un’organizzazione che funziona male, ma in genere apporta sempre benefici.

4.3 Definizioni di CoP

Non avendo una definizione completa e precisa col tempo questo concetto è stato usato e
“alterato” a piacimento, chiamando CoP gruppi di persone che non corrispondevano all’idea
iniziale.

Contestualmente si è assistito alla nascita di una pletora di termini che ha portato da una parte al tentativo di elaborazione dei concetti, dall’altra confusione e difficoltà nel confrontare casi ed esperienze. Oggi la situazione è che queste comunità vengono chiamate in vari modi e i termini non sono definiti in maniera univoca. Bisognerebbe vedere cosa si intende caso per caso, per avere un approccio rigoroso e scientifico, ed eventualmente ricondurre questi termini a tipologie meno numerose e più caratterizzate.

4.4 Caratteristiche di una CoP

Le caratteristiche delle CoP sono:

1) la spontaneità

2) la partecipazione

3) la reciprocità

Le CoP sono orientate al problem solving, il che è insito nel termine pratica. E’ una sorta di extra lavoro, qualcosa di non previsto, in cui tutti continuano a svolgere i propri compiti.

Oltre alle caratteristiche che le determinano, un altro aspetto interessante delle CoP è la legittimazione, intesa come il riconoscere da un lato il singolo individuo (mantenendo la sua identità all'interno della comunità in tutta la sua ricchezza, contro l’omologazion, e accettandone la sua diversità), e dall’altro lato molteplici individui (sono anche quei legami forti che se rotti o violati rompono la comunità, o portano l’individuo a essere espulso dalla comunità. L'idea di fondo è l'essere legati alla risoluzione del problema).

Altro aspetto importante è la reificazione, ovvero il fatto di oggettivare ed esternalizzare concetti, relazioni, e tutto ciò che la comunità costruisce come conoscenza; costruisce una sorta di memoria che può essere legata al linguaggio (la costruzione di un linguaggio comune) ma può essere vista anche come memoria su un supporto (qualcosa che persiste, che la CoP crea e mette a disposizione di tutti i membri, ed eventualmente di quelli che entrano, perché possano usufruire dell’esperienza passata).

Infine, una grande importanza è rivestita dalla negoziazione delle “regole" all'interno della Cop. Le regole di funzionamento di questa comunità sono definite in maniera locale e soggiacciono alla particolare struttura della CoP, diversa da quella solita e formale che si trova nelle organizzazioni. Alcune regole particolarmente importanti per la vita della CoP possono essere il mantenimento della memoria, le modalità di accoglienza, etc. Tali regole possono essere convenzionali oppure esplicite, perché non è detto che siano sempre totalmente formalizzate. Chi non è d’accordo può cercare di dissentire, e di far cambiare alcune cose.

Alla base di tutte le caratteristiche che determinano la Cop vi è una dialettica tra competenze e pratica: le competenze da sole influenzano il comportamento della CoP; se legate alla pratica definiscono la risoluzione dei problemi. Ciascuno deve conquistare sul campo la propria competenza e autorevolezza. È una partecipazione che costa, che richiede sforzo, ed è molto dinamica. Partecipare ad una CoP vuol dire essere disposti a fare qualcosa in più del dovuto. Quando la CoP realizza che il costo è maggiore di quello che si ottiene o si sfalda oppure l’individuo viene estromesso.

Come si può rendere operativo questo concetto in termini organizzativo-tecnologici?

Dal punto di vista organizzativo riconoscere una CoP, che è un corpo non previsto: come trattarla?

Qualcosa di positivo o negativo?

Favorirla o no?

Dal punto di vista tecnologico sapere che un gruppo di persone è o non è una CoP ha una grossa implicazione sulla progettazione della tecnologia di supporto perché se un gruppo di persone è una CoP, la tecnologia non deve intralciare o imporre qualcosa che è già garantito dalla comunità stessa, ma puntare sulla costruzione della memoria senza preoccuparsi di creare legami o almeno farlo in maniera differenziata tra chi entra e chi è già dentro. Bisogna stimolare il potenziale membro della comunità a diventare tale. La tecnologia deve adeguarsi e non interferire nelle relazioni perché rischia di essere un elemento distruttivo.

Usare il termine “costruire” riferendosi alla Cop è errato: è possibile supportarla e favorirla tecnologicamente, ma è impossibile costruirla o crearla. Strutturare un’organizzazione come CoP è una contraddizione.

Nell’osservare questi flussi comunicativi informali si è visto che questa modalità era efficace, altrimenti non si sarebbe inventato questo concetto.

4.5 Come riconoscere una CoP

Il riconoscimento della Cop è importante per le aziende per capire cosa succede, e una volta riconosciuta, è fondamentale fare in modo che le decisioni messe in atto non influiscano sulla CoP stessa, per evitare che venga danneggiata.

Non è facile entrare in un’organizzazione e riconoscerla in maniera immediata perchè le persone possono essere molto diverse e non aderiscono a standard fissi. Il punto cruciale è il legame che si crea. Sarebbe opportuno trovare degli strumenti di riconoscimento non banali. Per fare questo, ci si sofferma su alcuni passaggi e concetti chiave:

a. omogeneità vs eterogeneità: è più facile che trovi una comunità tra persone con le stesse caratteristiche con gli stessi ruoli o tra persone eterogenee, con competenze diverse?

Ci sono CoP caratterizzate da omogeneità di individui (ruoli, competenze, responsabilità), e questo è comprensibile, perché il problem solving si esercita sulle stesse cose. Ma questa non è una caratteristica primaria, perché ci sono anche CoP che riescono a creare quei legami anche essendo eterogenee. Quindi queste caratteristiche non sono caratterizzanti.

Possiamo dire che le comunità molto omogenee hanno una grossa coesione dal punto di vista dell’abitudine a risolvere problemi, quindi si consolidano in fretta ma rischiano di essere conservatrici, talvolta non sono in grado di generare nuova conoscenza, rivelandosi poco dinamiche. L’eterogeneità è meno statica e può portare scontri e litigi rappresentando una potenziale fonte di tensioni, e quindi anche di crisi. Ci sono aspetti positivi e negativi che si complementano.

b. dimensione del gruppo: sono comunità numerose o fatte da poche persone?

Anche qui, ci sono CoP di poche unità, poche decine di persone, e ce ne sono invece di molto più grandi. Neanche questo è un elemento caratterizzante. Se il gruppo è piccolo è più facile negoziare regole, stabilire una memoria. In una CoP grande, invece, può avvenire che si creino delle sottocomunità integrate (non completamente autonome), che hanno motivazioni più omogenee, che mantengono dei legami comunque forti.

c. pratica: intesa come riconoscimento delle pratiche, cioè dei gruppi di problemi, di motivazioni operative per cui le persone si organizzano in comunità. Si tratta di riconoscere comportamenti, flussi comunicativi, ricorrenze nel modo di comportarsi che possono essere legate al problem solving: è un criterio, ma non è sempre semplice e nucleare perché dietro al problem solving ci può essere di tutto.

È più semplice che la CoP emerga dentro un’organizzazione, rispetto al caso in cui attraversi più organizzazioni (inter-organizzazione).

4.6 Tipologie di CoP

Le CoP possono essere reali o virtuali ed in questa distinzione è fondamentale il ruolo della tecnologia, che nei punti citati finora non aveva grande influenza. La tecnologia porta anche il campo di indagine alle comunità virtuali, anche senza la partecipazione fisica alla stessa struttura ed anche se le persone non si incontrano spesso. La tecnologia deve quindi sia lavorare nell’organizzazione, che supportare una comunità di persone distanti.

Può esserci una sorta di effetto domino: prendendo più persone di diverse comunità si rischia di coinvolgere individui che hanno si relazioni ma appartengono a CoP diverse, perché spesso persone di diverse comunità sono in comunicazione tra di loro, in diversi modi. E' quello che accade con lo scambio di informazioni o partecipazione multipla (una stessa persona può partecipare a più comunità). Questa partecipazione multipla può essere di due tipi:

- consapevole (la comunità è cosciente che un suo membro appartiene a diverse CoP e ne trae vantaggi);

- inconsapevole (la comunità non riesce a percepire l'appartenenza multipla del membro a più Cop ma ne trae comunque vantaggi dato che le persone portano dentro esperienze senza magari caratterizzarle come derivanti da altre CoP).

Da osservare sono i risultati di queste attività, che sono identificabili da punti di efficienza di conoscenza vitale (core KN). Il manager può identificare zone dell'organizzazione che funzionano molto bene, dove c’è molta conoscenza e innovazione, e li probabilmente ci possono essere meccanismi virtuosi legati a queste CoP. Può essere interesse del manager costruire una protezione intorno a queste CoP, per favorirla.

Le CoP sono dinamiche, non solo per il fatto che ci sono persone che entrano e che escono ma anche perchè, prima di diventare totalmente operative, affrontano varie fasi.

Può essere utile percepire la costruzione di una memoria: è un indicatore forte di queste caratteristiche. Non si parla di una documentazione ufficiale, ma una memoria locale, di lavoro, di servizio, senza la quale l’azienda sopravvivrebbe ugualmente.

4.7 Fasi di una Cop

Una comunità può essere vista come un organismo vivente, che evolve passando attraverso diverse fasi, che caratterizzano le attività. Questa stratificazione di fasi è nata dall’esperienza di osservazione di quello che si trova nelle strutture organizzative, quindi nasce dalla pratica.

- Prima fase: potenziale

Gli individui si costituiscono in un gruppo condividendo interessi comuni. Questa fase è quella più difficilmente osservabile, e talvolta dopo questa fase non c’è più niente, la comunità si dissolve. In questa fase i supporti naturali sono quelli alla comunicazione, all’incontro, alla narrazione reciproca;

- Seconda fase: costruzione

La CoP costruisce tutti gli elementi che le consentono di funzionare: la comunicazione, l’ambito di interesse (che cosa vogliono condividere, cosa intendono come pratica), le regole di funzionamento, i ruoli e la "memoria” (che può essere qualcosa che evolve nel tempo). Anche in questo caso c'è la possibilità che la comunità non parta.

Si comincia a discutere se l’idea iniziale è fattibile oppure no. A questo punto c’è ancora fortissimo il rischio che la comunità non evolva, magari per via del rapporto tra costo e beneficio. Le attività mettono a punto strumenti e tecnologie essenziali per applicare le regole;

- Terza fase: impegno

Rappresena l'attivazione, la fase di prova, dove si iniziano ad applicare in maniera attiva le regole, e si verifica che la cosa sia realistica (ci si mette alla prova). C'è una verifica di fattibilità che può anche portare a un fallimento. Vi è la correzione di eventuali errori;

- Quarta fase: messa in attività

Le regole sono state testate, funzionano, quindi si inizia a lavorare: la CoP diventa operativa al 100%, la memoria, la reciprocità e l'accoglienza vengono mantenute nel tempo. Si inizia a generare conoscenza;

- Quinta fase: adattativa

Riguarda il cambiamento, la trasformazione.La tecnologia è più leggera perché prevale la negoziazione tra persone;

- Sesta fase: di evoluzione

Se la comunità è forte ed efficiente si potrebbe anche pensare di dare una struttura diversa, modificare le regole per ampliare il mio spettro di membri e d'azione. Tale evoluzione è da considerarsi positiva, anche nel caso in cui la comunità si smembri in più comunità per motivi di crescita e di semplificazione del lavoro.

Può succedere che la CoP fallisca in qualsiasi momento; quando questa scompare si rompono anche i legami tra le persone come individui, quindi è sempre qualcosa di negativo.

Queste sono fasi analitiche di buon senso che servono per analizzare una sequenza di stadi, e come nel caso di Nonaka per evidenziare attività e supporti che ciascuna fase potrebbe usare per evolversi. Possono aiutare a riconoscere la comunità perché una CoP deve necessariamente trovarsi in una qualsiasi di queste fasi ed è importante saper leggere i fenomeni che si osservano.

Non è necessario che tutte queste fasi siano eseguite nello stesso ordine infatti per esempio si potrebbe partire subito dalla fase operativa. Oppure, dato che la CoP può trattare diversi aspetti di problem solving e KM, magari è attiva per alcune fasi e in formazione per altre.

Questa visione a fasi riguarda il comportamento interno della CoP, ma ci sono anche fasi e situazioni, o relazioni, indipendenti a queste che riguardano i rapporti tra CoP e organizzazioni:

esempio 1: l’organizzazione può non percepire l’esistenza di questa CoP o perché non ha la cultura per farlo oppure perché la comunità si nasconde bene.

esempio 2: la CoP fa di tutto per non essere riconosciuta (“carbonara”): la comunità teme che se si fa riconoscere verrà combattuta o distrutta dall’organizzazione.

esempio 3: la CoP è legittimata: l’organizzazione la percepisce o la comunità è sufficientemente attiva per farsi percepire, e l’organizzazione non la osteggia ma anzi la favorisce.

esempio 4: la comunità strategica: la relazione è estremamente positiva perché non solo l’organizzazione la riconosce ma la considera strategica e quindi la protegge l’aiuta a mantenere la vitalità in quanto crede che il suo operato sia importante per l’azienda. Se l’azienda è furba, a fronte di un’esperienza positiva, anch'essa stessa si pone in quell’ottica.

esempio 5: l'organizzazione è trasformativa: la CoP viene protetta ma riesce anche ad avere dei grossi effetti al di fuori della comunità stessa in quanto può anche mettersi in mostra con altre comunità per la propria efficacia.

Queste relazioni possono anche essere viste come possibili evoluzioni, magari all’inizio una CoP si nasconde, poi per qualche motivo può venire riconosciuta, legittimata, e così via.

4.8 Fasi di una Cop vs Nonaka

Cerchiamo di creare delle relazioni tra queste fasi e quelle di Nonaka (modello SECI).
Fase potenziale: è in relazione con la socializzazione (T -> T): si valuta se abbiamo un orizzonte comune.

Fase di costruzione: è in relazione con esternalizzazione e combinazione (perché queste regole devono poi essere rese omogenee anche se ognuno cerca di proporre il suo modello che viene negoziato e combinato con quelli degli altri).

Fase di impegno: è in relazione con la socializzazione (se si deve discutere delle cose che non vanno bene), e la combinazione (se tutto va bene si combina, si va avanti, altrimenti si torna indietro, si può cominciare a rinegoziare).

Fase attiva è in relazione con la combinazione (prevalentemente); poi può avvenire su altri aspetti di conoscenza (socializzazione, esternalizzazione, e combinazione su altra conoscenza). Qui c’è anche l’internalizzazione: mettere in pratica è il modo migliore per imparare e tutto questo è stato costruito per far si che la conoscenza cresca, che la spirale si alimenti e che la fatica collettiva ripaghi il singolo.

Fase adattativa: dato che c’è un evoluzione che deve essere negoziata, c’è sicuramente una fase di socializzazione (ci si divide, ci si dà delle regole, si rinegozia ad un livello più alto).

La CoP non è una struttura necessariamente piatta, in cui tutti fanno la stessa cosa ma ci possono essere ruoli diversi. Wenger ha individuato ruoli vitali e riconosce la diversità non solo nelle competenze tecniche ma anche nelle capacità delle persone. Ci possono essere diversi tipi di leadership:

- colui che dà l’ispirazione (facendo domande strane, dando stimoli a chi può magari rispondere come ad esempio il leader di un gruppo di ricerca);

- i portatori d’acqua: colui che dice che le cose devono comunque funzionare, e cerca di mettere in atto i meccanismi della comunità;

- il leader classificatore, che mette in ordine la conoscenza generata e crea la memoria.

- poi c’è la leadership di colui che è in grado di risolvere i conflitti (ad esempio colui che è in grado di far ragionare due persone);

- i leader capaci ad aprire la loro storia verso altre comunità: il boundary;

- colui che tiene in maniera costruttiva le relazioni con il resto dell’organizzazione e che è in grado di parlare col management;

- la "persona fantasiosa" che promuove attività interne per migliorare la conoscenza (questa figura non è estremamente fondamentale).

4.9 Le Dimensioni delle CoP secondo J.H.Erik Andriessen

J.H.Erik Andriessen ha analizzato casi, fatto una rassegna della letteratura e ha distillato da questa analisi un lavoro di ‘clustering’, cercando di raggruppare classi di casi e di caratteristiche in modo da creare tipologie che riducessero il nome e il numero di termini usati.

In questo lavoro ha evidenziato due caratteristiche che consentivano di discriminare situazioni indipendentemente dai termini con cui venivano denotate, e sulla base di queste due dimensioni ha identificato una serie di insiemi, di situazioni, e ha dato dei nomi perché i casi potessero essere ricondotti ad una stessa tipologia. Allo stesso tempo ha definito anche un modo per collocare le eventuali situazioni in cui ci si può trovare analizzando comunità di pratica sulla base di questi due indicatori.

Queste due dimensioni sono la connettività e l’istituzionalizzazione della CoP.

Per connettività si intende il grado di coesione del gruppo non solo in termini di connessione fra le persone, ma anche di legami che si creano tra esse.

L'istituzionalizzazione sta a significare quanto la comunità viene riconosciuta dall’organizzazione facendo riferimento al rapporto tra la comunità e l’organizzazione che la ospita. Rappresenta l’accettazione o la volontà di nascondersi della comunità rispetto all’organizzazione.

I raggruppamenti che ha identificato sono legati a un livello basso, medio e alto di connettività, e a un livello basso oppure alto di istituzionalizzazione.

Possiamo quindi pensare che lo spazio sia idealmente diviso in sei settori. Andriessen colloca in questi settori i casi che descrive, ma anche le caratteristiche che attribuisce ai termini utilizzati per caratterizzare i settori stessi. Le CoP hanno alta coesione e bassa istituzionalizzazione. Le comunità strategiche (trasformative) che l’organizzazione favorisce e protegge hanno alta coesione e alta istituzionalizzazione.

Poi identifica bassa connettività e bassa istituzionalizzazione nei gruppi di interesse, che in generale non sono istituzionalizzati. In essi ci può essere un tema più o meno serio che coinvolge tutti, dove però non c’è impegno reciproco a rispondere a qualcuno o a condividere tutta la propria conoscenza e l’interesse viene dichiarato ma non richiede molto impegno.

Ad un livello intermedio, ma con bassa istituzionalizzazione, si inizia a parlare di network informale, ovvero qualcosa di più connesso di un gruppo, ma non ancora a livello di comunità. Questa classe è nata dal fatto che spesso nelle organizzazioni e anche inter-organizzazioni ci sono dei network che si mantengono in modo informale e spontaneo, con regole lasche, ma con dei committment più forti di quelli del gruppo e che mantengono le relazioni tra di loro (ad esempio perché hanno avuto esperienze in comune). La classica tipologia che rappresenta al meglio questo gruppo è data da persone formate in azienda, che uscendo da essa mantengono legami con le persone con cui si trovavano bene. Tale struttura organizzativa ha molto valore per le aziende in quanto si mantiene spontaneamente ed è legata dall’aiuto reciproco.

LinkedIN, ad esempio, è nato proprio per rispondere a questa esigenza. Questi legami sono importanti per le aziende, perché aumentano le capacità di problem solving a basso costo. Grazie alla mobilità, questo tipo di network informale costituisce una specie di ragnatela che avvolge le aziende che insieme costituiscono una risorsa collettiva chiamata in generale collective intelligence. Il “sapere chi sa” può essere gestito in modo diverso da un’organizzazione: questo invece è un sistema totalmente autogestito.

E' un fenomeno che è sempre esistito perché la rete sociale di ex colleghi è sempre stata mantenuta e la tecnologia ha dato un alto impulso in questo senso. Il pregio è la maggiore connettività ma con la possibilità di formare legami anche banali e insignificanti tali da portare ad una socializzazione a livello più basso.

Facendo riferimento a gruppi che stanno nei quadranti medio-alti della connettività e verso un riconoscimento e un incentivo alla loro sopravvivenza da parte delle aziende, si parla spesso di social capital, inteso dal punto di vista della struttura sociale. Se ne parla in relazione alle CoP perché esse sono il luogo dove questo capitale sociale viene sviluppato in tutta la sua ricchezza. (se si scende nello schema, qualche dimensione si indebolisce).

Il capitale sociale viene definito secondo tre dimensioni:

1) Dimensione strutturale

2) Dimensione di relazione

3) Dimensione di conoscenza

Il social capital è l’evoluzione e l’opposizione di quello che viene definito individual capital o human capital. Il primo passo di valorizzazione della conoscenza in un'azienda passa attraverso l’individuo: è importante considerare la persona come un asset dell’azienda stessa. Senza voler negare l’importanza del capitale umano e dell’individualità, ci si è resi conto che l’apprendimento è un processo sociale e pertanto ha senso pensare alle persone dentro la rete sociale, non all’umano da solo.

Questo passaggio giustifica queste tre dimensioni con cui è definito il social capital. La dimensione strutturale si riferisce ai legami tra le persone, riconoscendo che non è detto che la connettività sia uniforme su tutto il gruppo di persone, ma l’importante è che abbia una certa sostanza.

La dimensione di relazione passa dalla sintassi (grado di relazione) al significato, ovvero che tipo di relazione lega queste persone. Si fa riferimento ad alcuni tipi di legame (ad esempio quanto una persona si sente impegnata nei confronti dell’altro: obbligation, dimensione dell’impegno reciproco, quanto ci si fida degli altri, etc.).

La dimensione di conoscenza riconduce alla dimensione umana perché il contenuto di conoscenza è quello che le persone scambiano, che sia essa tacita o esplicita, etc. Questa conoscenza è vista come prodotto dell’elaborazione delle conoscenze individuali e pertanto si torna nuovamente al ciclo di Nonaka interpretato in un altro modo.

Il social capital valorizza molto anche le relazioni esterne all’azienda (network informale) questo perché non è importante solo ciò che un individuo sappia qualcosa, ma anche il come tale conoscenza venga esportata verso l’esterno.